
INDICE di alcuni momenti più salienti
Agg. 5 agosto 2023
2 agosto 2023 – Vespri con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali nel Mosteiro dos Jerónimos di Lisbona
Incontro con i Giovani di Scholas Occurentes presso la sede di Cascais, 03.08.2023
Cerimonia di Accoglienza, 03 agosto 2023 Papa Francesco (video-servizi)
Il discorso del Papa
Il Papa alla Via Crucis: Gesù aspetta di vedere le finestre aperte delle nostre anime
Gmg 2023, Papa Francesco al Santuario di Fatima – Discorso integrale
Le voci e le emozioni dei 10 ragazzi che hanno pranzato con il Papa
5 agosto 2023
Lisbona: un milione e mezzo di giovani per la veglia con Papa Francesco

QUI SOPRA TUTTA LA VEGLIA: IMMAGINI E RITO STUPENDO!!!
6 agosto 2023
MESSA CONCLUSIVA DEL PAPA

OMELIA testo

7 agosto 2023
Cos’ha detto il Papa sul volo di ritorno dalla Gmg di Lisbona
2 agosto 2023
Vespri con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali nel Mosteiro dos Jerónimos di Lisbona
Cari fratelli Vescovi,
cari sacerdoti e diaconi, consacrate, consacrati e seminaristi,
cari operatori pastorali, fratelli e sorelle, buonasera!
Sono felice di essere tra voi per vivere insieme a tanti giovani la Giornata Mondiale della Gioventù, ma anche per condividere il vostro cammino ecclesiale, le vostre fatiche e le vostre speranze. Ringrazio Monsignor José Ornelas Carvalho per le parole che mi ha rivolto; desidero pregare con voi perché, come ha detto, possiamo diventare, insieme ai giovani, audaci nell’abbracciare “il sogno di Dio e nel trovare vie per una partecipazione gioiosa, generosa e trasformatrice, per la Chiesa e per l’umanità”. E questo non è uno scherzo, è un programma.
Mi sono immerso nella bellezza del vostro Paese, terra di passaggio tra il passato e il futuro, luogo di antiche tradizioni e di grandi cambiamenti, impreziosito da valli rigogliose e da spiagge dorate affacciate sulla sconfinata bellezza dell’oceano, che costeggia il Portogallo. Ciò mi riporta al contesto della prima chiamata dei discepoli, che Gesù chiamò sulle rive del Mare di Galilea. Vorrei soffermarmi su questa chiamata, che evidenzia quanto abbiamo appena ascoltato nella Lettura breve dei Vespri: il Signore ci ha salvati e ci ha chiamati non in base alle nostre opere, ma secondo la sua grazia (cfr 2Tm 1,9). Questo è accaduto nella vita dei primi discepoli quando Gesù, passando, «vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti» (Lc 5,2). Gesù allora salì sulla barca di Simone e, dopo aver parlato alle folle, cambiò la vita di quei pescatori invitandoli a prendere il largo e a gettare le reti. Notiamo subito un contrasto: da una parte, i pescatori scendono dalla barca per lavare le reti, cioè per pulirle, conservarle bene e tornare a casa; dall’altra parte, Gesù sale sulla barca e invita a gettare di nuovo le reti per la pesca. Risaltano le differenze: i discepoli scendono, Gesù sale; loro vogliono conservare le reti, Lui vuole che si gettino nuovamente in mare per la pesca.
Anzitutto, ci sono i pescatori che scendono dalla barca per lavare le reti. Questa è la scena che si presenta agli occhi di Gesù e Lui si ferma proprio lì. Aveva da poco iniziato la sua predicazione nella sinagoga di Nazaret, ma i suoi compaesani lo avevano cacciato fuori dalla città e avevano persino cercato di ucciderlo (cfr Lc 4,28-30). Allora Egli esce dal luogo sacro e inizia a predicare la Parola tra la gente, sulle strade dove le donne e gli uomini del suo tempo faticano ogni giorno. A Cristo interessa portare la vicinanza di Dio proprio nei luoghi e nelle situazioni in cui le persone vivono, lottano, sperano, talvolta stringendo tra le mani fallimenti e insuccessi, proprio come quei pescatori che nella notte non avevano preso nulla. Gesù guarda con tenerezza Simone e i suoi compagni che, stanchi e amareggiati, lavano le loro reti, compiendo un gesto ripetitivo, automatico, ma anche affaticato e rassegnato: non restava che tornare a casa a mani vuote.
A volte, nel nostro cammino ecclesiale, si può provare una stanchezza simile. Stanchezza. Qualcuno diceva: “Temo la stanchezza dei buoni”. Una stanchezza quando ci sembra di stringere tra le mani solo delle reti vuote. È un sentimento piuttosto diffuso nei Paesi di antica tradizione cristiana, attraversati da molti cambiamenti sociali e culturali e sempre più segnati dal secolarismo, dall’indifferenza nei confronti di Dio, da un crescente distacco dalla pratica della fede – e qui c’è il pericolo che entri la mondanità –. E ciò è spesso accentuato dalla delusione o dalla rabbia che alcuni nutrono nei confronti della Chiesa, talvolta per la nostra cattiva testimonianza e per gli scandali che ne hanno deturpato il volto, e che chiamano a una purificazione umile e costante, a partire dal grido di dolore delle vittime, sempre da accogliere e da ascoltare. Ma, quando ci si sente scoraggiati – e ciascuno di voi pensi in quale momento ha provato scoraggiamento –, il rischio è quello di scendere dalla barca, restando impigliati nelle reti della rassegnazione e del pessimismo. Invece, abbiamo fiducia che Gesù continua a tendere la mano, a sostenere la sua amata Sposa. Portiamo al Signore le nostre fatiche e le nostre lacrime, per poi affrontare le situazioni pastorali e spirituali confrontandoci con apertura di cuore e sperimentando insieme qualche nuova via da seguire. Quando ci scoraggiamo, più o meno consapevolmente, ci mettiamo “in pensione”, in pensione dallo zelo apostolico, lo andiamo perdendo e ci trasformiamo in funzionari del sacro. È molto triste quando una persona che ha consacrato la sua vita a Dio si trasforma in funzionario, in mero amministratore delle cose. È molto triste.
Infatti, appena gli apostoli scendono a lavare gli strumenti utilizzati, Gesù sale sulla barca e poi invita a gettare di nuovo le reti. Nel momento dello scoraggiamento, del “pensionamento”, lasciamo che Gesù salga di nuovo sulla barca, con la speranza dei primi tempi, quella speranza che dev’essere ravvivata, riconquistata, ri-editata. Lui viene a cercarci nelle nostre solitudini e nelle nostre crisi per aiutarci a ricominciare. La spiritualità del ricominciare. Non abbiate paura. Così è la vita: cadere e ricominciare, stancarsi e ricevere di nuovo la gioia. Ricevere la mano da Gesù. Anche oggi passa sulle rive dell’esistenza per risvegliare la speranza e dire anche a noi, come a Simone e gli altri: «Prendi il largo e gettate le reti per la pesca» (Lc 5,4). E quando si perde la speranza, ci vengono mille giustificazioni per non gettare le reti; ma soprattutto quella rassegnazione amara, che è come un verme che guasta l’anima. Fratelli e sorelle, quello che viviamo è certamente un tempo difficile, lo sappiamo, ma il Signore oggi chiede a questa Chiesa: “Vuoi scendere dalla barca e sprofondare nella delusione, oppure farmi salire e permettere che sia ancora una volta la novità della mia Parola a prendere in mano il timone? Tu, sacerdote, consacrato, consacrata, vescovo, vuoi solo conservare il passato che hai alle spalle oppure gettare nuovamente con entusiasmo le reti per la pesca?”. Ecco cosa ci domanda il Signore: di risvegliare l’inquietudine per il Vangelo.
Quando ci si abitua e ci si annoia e la missione si trasforma in una specie di “impiego”, è il momento di dare spazio alla seconda chiamata di Gesù, che ci chiama di nuovo, sempre. Ci chiama per farci camminare, ci chiama per rifarci di nuovo. Non abbiate paura di questa seconda chiamata di Gesù. Non è un’illusione, è Lui che viene a bussare alla porta. E possiamo dire che questa è l’inquietudine “buona”, quando ci lasciamo attrarre dalla seconda chiamata di Gesù, quell’inquietudine buona che l’immensità dell’oceano consegna a voi portoghesi: spingersi oltre la riva non per conquistare il mondo – né per pescare baccalà –, ma per allietarlo con la consolazione e la gioia del Vangelo. In quest’ottica si possono leggere le parole di un vostro grande missionario, Padre António Vieira, chiamato “Paiaçu”, padre grande: egli diceva che Dio vi ha dato una piccola terra per nascere ma, facendovi affacciare sull’oceano, vi ha dato il mondo intero per morire: «Per nascere, poca terra; per morire, tutta la terra: per nascere, Portogallo; per morire, il mondo» (A. Vieira, Omelie, Vol. III, Tomo VII, Porto 1959, p. 69). Gettare di nuovo le reti e abbracciare il mondo con la speranza del Vangelo: a questo siamo chiamati! Non è tempo di fermarsi, non è tempo di arrendersi, non è tempo di ormeggiare la barca a riva o di guardarsi indietro; non dobbiamo fuggire questo tempo perché ci spaventa e rifugiarci in forme e stili del passato. No, questo è il tempo di grazia che il Signore ci dà per avventurarci nel mare dell’evangelizzazione e della missione.
Per farlo, però, abbiamo anche bisogno di compiere delle scelte. Vorrei indicarvi tre scelte, ispirate al Vangelo.
Anzitutto, prendere il largo. La magnanimità. Non siate pusillanimi! Prendere il largo. Per gettare nuovamente le reti in mare, bisogna lasciare la riva delle delusioni e dell’immobilismo, prendere le distanze da quella tristezza dolciastra e da quel cinismo ironico che a volte ci assalgono dinanzi alle difficoltà. Tristezza dolciastra, cinismo ironico. Esaminiamo la coscienza su questo. Recuperare la speranza, ma una seconda edizione della speranza, la speranza matura, la speranza che viene dopo il fallimento o la stanchezza, Non è facile recuperare la speranza adulta. Bisogna farlo per passare dal disfattismo alla fede, come Simone che, pur avendo faticato a vuoto tutta la notte, dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). Ma, per fidarsi ogni giorno del Signore e della sua Parola, non bastano le parole, occorre tanta preghiera. E qui vorrei farvi una domanda, ma ciascuno risponda dentro di sé: come prego io? Come un pappagallo, bla, bla, bla, o facendo la siesta davanti al Tabernacolo perché non so come parlare con il Signore? Prego? Come prego? Solo in adorazione, solo davanti al Signore si ritrovano il gusto e la passione per l’evangelizzazione. È interessante: la preghiera di adorazione l’abbiamo perduta; e tutti, sacerdoti, vescovi, consacrate, consacrati devono recuperarla: rimanere in silenzio davanti al Signore. Madre Teresa, coinvolta in tante cose della vita, mai ha tralasciato l’adorazione, nemmeno nei momenti in cui la sua fede vacillava e si domandava se era tutto vero o no. Momenti di oscurità, che ha passato anche Teresina di Gesù Bambino. Allora, nella preghiera, si supera la tentazione di portare avanti una “pastorale della nostalgia e dei lamenti”. In un convento c’era una monaca – questo è accaduto realmente – che si lamentava di tutto, e non so che nome avesse, ma le monache le cambiarono il nome e la chiamavano “Suor lamentela”. Quante volte le nostre impotenze, le nostre delusioni le trasformiamo in lamentele! E abbandonando queste lamentele si riprende un’altra volta la forza per prendere il largo, senza ideologie, senza mondanità. La mondanità spirituale che entra in noi e dalla quale si genera il clericalismo. Clericalismo non solo dei preti: i laici clericalizzati sono peggio dei preti. Quel clericalismo che ci rovina. E, come diceva un gran maestro spirituale, questa mondanità spirituale – che provoca il clericalismo – è uno dei mali più gravi che possono capitare alla Chiesa. Superare queste difficoltà senza ideologie, senza mondanità, animati da un unico desiderio: che il Vangelo raggiunga tutti. Avete tanti esempi su questa strada e, visto che siamo immersi tra i giovani, mi piace ricordare un giovane di Lisbona, San João de Brito – era un ragazzo di qui –, che secoli fa, fra tante difficoltà, partì per l’India e cominciò a parlare e vestirsi allo stesso modo di chi incontrava pur di annunciare Gesù. Anche noi siamo chiamati a immergere le nostre reti nel tempo che viviamo, a dialogare con tutti, a rendere comprensibile il Vangelo, anche se per farlo possiamo rischiare qualche tempesta. Come i giovani che da tutto il mondo vengono qui a sfidare le onde giganti, anche noi andiamo al largo senza paura; non temiamo di affrontare il mare aperto, perché in mezzo alla tempesta e ai venti contrari ci viene incontro Gesù, che dice: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!” (Mt 14,27)». Quante volte abbiamo fatto questa esperienza? Ognuno risponda dentro di sé. E se non l’abbiamo fatta, è perché qualcosa è andato storto durante la tempesta.
Una seconda scelta: portare avanti insieme la pastorale, tutti insieme. Nel testo Gesù affida a Pietro il compito di prendere il largo, ma poi parla al plurale, dicendo «gettate le reti» (Lc 5,4): Pietro guida la barca, ma sulla barca ci sono tutti e tutti sono chiamati a calare le reti. Tutti. E quando prendono una grande quantità di pesci, non pensano di farcela da soli, non gestiscono il dono come possesso e proprietà privata ma, dice il Vangelo, «fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli» (Lc 5,7). Così riempirono di pesci due barche. Uno significa solitudine, chiusura, pretesa di autosufficienza, due significa relazione. La Chiesa è sinodale, è comunione, aiuto reciproco, cammino comune. A questo tende il Sinodo in corso, che avrà il suo primo momento assembleare nel prossimo ottobre. Sulla barca della Chiesa ci dev’essere spazio per tutti: tutti i battezzati sono chiamati a salirvi e a gettare le reti, impegnandosi in prima persona nell’annuncio del Vangelo. E non dimenticate questa parola: tutti, tutti, tutti. Mi tocca molto il cuore, quando devo dire come aprire prospettive apostoliche, quel passo del Vangelo in cui la gente non va alla festa di nozze del figlio ed è tuto preparato. E che cosa dice il padrone, il padrone della festa cosa dice? “Andate ai crocicchi e portate qui tutti, tutti, tutti: sani, malati, piccoli e grandi, buoni e peccatori. Tutti”. La Chiesa non sia una dogana, per selezionare chi entra e chi no. Tutti, ciascuno con la sua vita sulle spalle, coi suoi peccati, così com’è, davanti a Dio, così com’è davanti alla vita… Tutti, tutti. Non mettiamo dogane nella Chiesa. Tutti. È una grande sfida, specialmente nei contesti in cui i sacerdoti e i consacrati sono affaticati perché, mentre aumentano le esigenze pastorali, sono sempre di meno. A questa situazione, però, possiamo guardare come un’occasione per coinvolgere, con slancio fraterno e sana creatività pastorale, i laici. Le reti dei primi discepoli, allora, diventano un’immagine della Chiesa, che è una “rete di relazioni” umane, spirituali e pastorali. Se non c’è dialogo, se non c’è corresponsabilità, se non c’è partecipazione, la Chiesa invecchia. Lo vorrei dire così: mai un Vescovo senza il proprio presbiterio e il Popolo di Dio; mai un prete senza i confratelli; e tutti insieme – sacerdoti, religiose, religiosi e fedeli laici – come Chiesa, mai senza gli altri, mai senza il mondo. Senza mondanità, ma non senza il mondo. Nella Chiesa ci si aiuta, ci si sostiene a vicenda e si è chiamati a diffondere anche fuori un clima di fraternità costruttivo. D’altronde, San Pietro scrive che siamo le pietre vive impiegate per la costruzione di un edificio spirituale (cfr 1 Pt 2,5). Vorrei aggiungere: voi fedeli portoghesi siete anche una “calçada”, siete le pietre pregiate di quel pavimento accogliente e splendente su cui il Vangelo ha bisogno di camminare: neanche una pietra può mancare, altrimenti si nota subito. Ecco la Chiesa che, con l’aiuto di Dio, siamo chiamati a costruire!
Infine, terza scelta: diventare pescatori di uomini. Non abbiate paura. Questo non è fare proslitismo, è annunciare il Vangelo che interpella. In questa immagine così bella di Gesù, essere pescatori di uomini, Egli affida ai discepoli la missione di prendere il largo nel mare del mondo. Spesso, nella Scrittura, il mare è associato al luogo del male e delle potenze avverse che gli uomini non riescono a dominare. Perciò, pescare le persone e tirarle fuori dall’acqua significa aiutarle a risalire da dove sono sprofondate, salvarle dal male che rischia di farle affogare, risuscitarle da ogni forma di morte. Questo però senza proselitismo, ma con amore. E uno dei segni che alcuni movimenti ecclesiali stanno andando male è il proselitismo. Quando un movimento ecclesiale o una diocesi, o un vescovo, o un prete, o una suora, o un laico fa proselitismo, questo non è cristiano. Cristiano è invitare, accogliere, aiutare, ma senza proselitismo. Il Vangelo, infatti, è un annuncio di vita nel mare della morte, di libertà nei gorghi della schiavitù, di luce nell’abisso delle tenebre. Come afferma Sant’Ambrogio, «gli strumenti della pesca apostolica sono come le reti: infatti le reti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano in vita, lo traggono dagli abissi alla luce» (Exp. Luc. IV, 68-79). Ci sono tante oscurità nella società di oggi, anche qui in Portogallo, da tutte le parti. Abbiamo la sensazione che sia venuto a mancare l’entusiasmo, il coraggio di sognare, la forza di affrontare le sfide, la fiducia nel futuro; e, intanto, navighiamo nelle incertezze, nella precarietà soprattutto economica, nella povertà di amicizia sociale, nella mancanza di speranza. A noi, come Chiesa, è affidato il compito di immergerci nelle acque di questo mare calando la rete del Vangelo, senza puntare il dito, senza accusare, ma portando alle persone del nostro tempo una proposta di vita, quella di Gesù: portare l’accoglienza del Vangelo, invitare alla festa, in una società multiculturale; portare la vicinanza del Padre nelle situazioni di precarietà, di povertà che crescono, soprattutto tra i giovani; portare l’amore di Cristo dove la famiglia è fragile e le relazioni sono ferite; trasmettere la gioia dello Spirito dove regnano demoralizzazione e fatalismo. Un vostro scrittore ha scritto: «Per arrivare all’infinito, e credo che ci si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito» (F. Pessoa, Livro do Desassossego, Lisboa 1998, 247). Sogniamo la Chiesa portoghese come un “porto sicuro” per chiunque affronta le traversate, i naufragi e le tempeste della vita!
Cari fratelli e sorelle: tutti, laici, religiosi, religiose, sacerdoti, vescovi, tutti, tutti, non abbiate paura, gettate le reti. Non vivete accusando: “questo è peccato, questo non è peccato”. Vengano tutti, poi parliamo, ma che sentano prima l’invito di Gesù e poi viene il pentimento, dopo viene la vicinanza di Gesù. Per favore, non fate diventare la Chiesa una dogana: qua si entra, i giusti, quelli che sono a posto, quelli che sono sposati bene, e là fuori tutti gli altri. No. La Chiesa non è questo. Giusti e peccatori, buoni e cattivi, tutti, tutti, tutti. E poi, che il Signore ci aiuti a risolvere la questione. Ma tutti. Vi ringrazio di cuore, fratelli e sorelle, per questo ascolto – che sarà stato noioso! –, vi ringrazio per ciò che fate, per l’esempio, soprattutto l’esempio nascosto, e per la costanza, l’alzarsi ogni giorno per ricominciare o continuare ciò che si è incominciato. Come dite voi: Muito obrigado! Per quello che fate… E vi affido alla Madonna di Fatima, alla custodia dell’angelo del Portogallo e alla protezione dei vostri grandi santi, specialmente, qui a Lisbona, di Sant’Antonio, instancabile apostolo – che si son rubati quelli di Padova –, ispirato predicatore, discepolo del Vangelo attento ai mali della società e pieno di compassione per i poveri: che Sant’Antonio interceda per voi e vi doni la gioia di una nuova pesca miracolosa. Poi mi racconterete. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
Incontro con i Giovani di Scholas Occurentes presso la sede di Cascais, 03.08.2023
Domanda n. 1 (POR)
Buongiorno. Scholas! Scholas! Scholas!
Quando mi è stato presentato, non ho avuto dubbi ad accettarlo e abbracciarlo perché è uno spazio dove tutti condividono le proprie emozioni e sentimenti. È uno spazio dove ognuno contribuisce con ciò che ha, di valori etici e morali, per il benessere della comunità. Indipendentemente dalla sua religione od origine. Sono della Guinea Bissau e sono musulmano, ma mi sento parte di questo spazio. E, come musulmano, sento l’obbligo e il dovere di unirmi e di far parte di questo movimento. Perché ciò a cui anche l’islam esorta è la buona convivenza tra le credenze, tra le diverse credenze. Ed esorta e si preoccupa del benessere della comunità. Ci dice che cosa dobbiamo fare, che dobbiamo prenderci cura del prossimo e, per questo motivo, vorrei chiedere perché Scholas è uno spazio con cui tutti si identificano e perché tanta diversità per ottenere un’opera d’arte.
Papa:
Scholas rende possibile tutto ciò, che ognuno si senta interpretato. Con grande rispetto, ma non è un rispetto statico, ma dinamico, che mette in cammino, per fare cose, per esprimersi facendo, com’è questo dipinto, che come mi ha detto del Corral, è una cappella sistina dipinta da voi. (Applausi). Scholas ti mette in cammino, Scholas ti fa rispettare l’altro, e ascoltare l’altro che ha qualcosa da dirti, e l’altro ascoltare te perché tu hai qualcosa da dirgli. Scholas ti indica il cammino per andare avanti, ti fa andare avanti. Scholas è un incontro camminando, tutti, qualsiasi sia il Paese, qualsiasi sia la religione, soltanto guardare avanti e camminare insieme. E questo è costruttivo, come i tre km e mezzo di murale che voi avete fatto per arrivare qui.
Domanda n. 2 (POR)
Vorrei continuare un po’ nella direzione della diversità per entrare nel tema che è stato alla base dei due mesi del nostro lavoro, che è il caos. Noi, come gruppo, e anche io individualmente, abbiamo avuto l’opportunità di visitare varie comunità diverse, varie persone diverse, di religione diversa, di culture diverse, e questo ci ha dato una grandiosa opportunità per approfondire sempre più, non solo dentro di noi, ma anche dentro tutta la comunità, ciò che significa scoprire il sentimento vero che esse provano, le sofferenze vere che sentono e, in tal modo, dare loro l’opportunità di esprimere tutto ciò con una pennellata, con una linea sul murale. Dare loro l’opportunità di esprimersi! E questo inevitabilmente ci coinvolge, tocca il nostro cuore e ci fa pensare: abbiamo questo sentimento? Queste sofferenze fanno parte di noi, del nostro convivere? Allora vorrei domandare: che cosa ne sarebbe della nostra esistenza senza il caos originale? Grazie.
Papa:
Tu dici caos, va bene. È la crisi. Sapete da dove viene la parola “crisi”? Quando si raccoglieva il grano, si passava al setaccio [in spagnolo [cribar: fa notare la parentela tra “crisi” e “cribar”]. E la crisi nelle persone sono situazioni della vita, eventi, problemi organici, malumore o buonumore. Ti fa cribar, ossia setacciare, e tu devi scegliere. Una vita senza crisi è una vita asettica. A te piace bere acqua? Ti piace? Se ti do acqua distillata, uno schifo! L’acqua distillata è un’acqua senza crisi. Una vita senza crisi è come l’acqua distillata, non sa di niente. Non serve a niente. Solo per metterla nell’armadio e chiudere la porta. Le crisi bisogna accettarle, bisogna accettarle e risolverle. Perché neanche rimanere nella crisi è un bene, perché è un suicidio continuo. È come uno stare per arrivare, per arrivare. Le crisi le devi percorrere, le devi accettare. E raramente da solo. E anche questo è importante nel gruppo di Scholas. Camminare insieme per affrontare crisi insieme, risolvere cose. L’importante è andare avanti e crescere insieme. Allora, avanti, anche solo per mangiare una feijoada.
Domanda n. 3 (POR)
In questi ultimi due mesi abbiamo lavorato molto per riuscire a fare il murale che ha visto lì fuori. Ma questo murale veramente rappresenta il caos. Il caos che, molto spesso, quando lo viviamo, e quando lo viviamo da vicino, non capiamo, ed è una grande confusione. Sembrano solo linee aleatorie. Ma la verità è che arriva un momento in cui noi ci distanziamo. In quella distanza cominciamo a riuscire a vedere forme, colori; cominciamo a riuscire a trovare un senso in questo caos, a riuscire a pensare più di quello che spesso vediamo appena o sentiamo appena, ma sì, riusciamo a esprimere. Per me, ad esempio, è stata un’esperienza molto importante perché anch’io ho vissuto momenti di grande caos nella mia vita – credo che tutti li viviamo – e la verità è che, ascoltare la storia degli altri, aprirsi veramente per ascoltare, per condividere e per accogliere tutte le persone che hanno partecipato a questo murale, è stato un privilegio per noi, forse più che per loro, per noi che siamo qui e abbiamo permesso che ciò accadesse. E tutto ciò perché cerchiamo questo senso, tutti cerchiamo questo senso profondo di percepire che è qualcosa di più grande del semplice essere qui. E allora vorremmo domandarle: quando è passato accanto al murale, che cosa ha sentito, che cosa ha provato durante nel tragitto fino a qui, nel cuore di questo murale, che per noi è davvero semplicemente l’inizio o la fine. Non lo sappiamo. E prima che lei risponda, vorremmo anche, a nome di tutti, offrirle un pennello, questo pennello che rappresenta tutti noi.
Papa:
È bello quello che hai detto del caos. C’era uno che diceva che la vita dell’uomo, la nostra vita umana, è fare del caos un cosmo, ossia di ciò che non ha senso, è disordinato, è caotico, fare un cosmo, con senso, aperto, inviante, complessivo. Non voglio fare qui il catechista, ma se vediamo la struttura del racconto della Creazione, che è un racconto mitico, nel senso vero della parola “mito”, perché mito è forma di conoscenza. Allora usa questa storia colui che ha scritto il racconto della Creazione. Tra parentesi, questo è stato scritto molto tempo dopo che il popolo ebraico ha fatto l’esperienza della sua liberazione. Ossia, pima c’è tutta l’esperienza dell’esodo del popolo ebraico e poi guardano indietro. E come è iniziata la storia? Come si è trasformato il caos in cosmo? E lì, in un linguaggio poetico, si narra come Dio dal caos un giorno fa la luce, un altro giorno fa l’uomo, e continua a creare cose e a trasformare il caos in cosmo. Nella nostra vita succede lo stesso: ci sono momenti di crisi – riprendo questa parola -, che sono caotici, che non sai più a che punto di trovi, tutti attraversiamo questi momenti bui. Caos. E qui il lavoro personale, delle persone che ci accompagnano, di un gruppo così, è di trasformare il cosmo. A me risulta difficile in questo caos della Sistina [risate] pensare che dietro c’è un cosmo, perché il cosmo qual è? Lo state costruendo voi nel messaggio che state portando avanti, nel cammino che avete davanti. Non vi dimenticate mai di questo: trasformare un caos in un cosmo. E questo è il cammino di ognuno. Una vita che rimane nel caotico è una vita fallita, e una vita che non ha mai provato il caos è una vita distillata, dove tutto è perfetto. E le vite distillate non danno vita, muoiono in sé stesse. E se una vita personale e relazionale che ha provato la crisi come caos e lentamente dentro di sé, e nella comunità, si è trasformata in un cosmo… tanto di cappello!
Una delle giovani di Scholas Occurrentes in spagnolo:
Grazie, Papa Francesco, per le tue parole. Grazie!
Una giovane in portoghese:
È una gioia per noi concludere così questo cammino. Ma, malgrado questa esperienza stia per finire, ci piacerebbe pensare che l’opera non finirà mai. Per questo oggi concluderemo cominciando. E così, quando un cammino si chiude, un nuovo cammino si apre. Abbiamo deciso di chiamare questo progetto: “Vita tra Mondi”. Infatti tutto il murale è un’esperienza e un’espressione di vita che nascono dall’incontro di tante realtà diverse. Perciò oggi faremo un salto e riuniremo un mondo fisico con un mondo virtuale.
Una giovane in spagnolo:
Ti chiediamo, caro Francesco, di accompagnarci fino alla parete che hai dietro di te e di regalarci l’ultima pennellata di questo murale, ma con un pennello molto particolare, capace di iniziare al tempo stesso un’opera virtuale che riuscirà a riunire le diverse comunità di Scholas in tutto il mondo.
José María del Corral, Presidente di Scholas Occurrentes:
Papa Francesco, il video, questo pennello virtuale di cui parlava Eugenia è un’arma per la pace. Sembra una pistola perché sparerà qui ma, invece di uccidere, questa pennellata che darai sulla parete la darai anche nel mondo virtuale. In questo momento ci sono ragazzi di Scholas in Mozambico, che hanno montato un dispositivo, in Mozambico, a Tofo, per vedere la pennellata che darai ora, e seguirla nel mondo virtuale, perché i giovani vogliono che sia tu a unire il mondo fisico con quello virtuale perché il mondo virtuale non smetta mai di essere concreto e impegnato con la realtà. [applausi] Dipingiamo la parete.
Papa:
Questa è la storia del buon Samaritano, e nessuno di noi è esente dall’essere un buon Samaritano. È un obbligo che abbiamo tutti. Ognuno deve cercarla nella vita, perché ognuno termina la propria vita […] ha perso come nella guerra. Il buon Samaritano lo trova gettato a terra, ma prima era passato un levita, era passato un sacerdote, però avevano fretta. Non gli hanno dato importanza. Ma oltre ad avere fretta, non potevano toccarlo perché c’era del sangue […] e secondo la legislazione di quel tempo chi toccava il sangue diventava impuro. Non so per quanto tempo doveva purificarsi, allora questo gli impediva di compiere il suo dovere, non doveva toccare. “Muori ma io non ti tocco, non divento impuro. Muori ma io non divento impuro”. Non dimenticatevi di questo. Quante volte può passare per la nostra mente: “Muori ma io non divento impuro”. Quante volte si preferisce la purezza rituale alla vicinanza umana […]. I Samaritani, nella mentalità dell’epoca, erano dei “disgraziati”, erano tutti disgraziati e commercianti, non erano puri di mente, di cuore, erano emarginati, ma il buon Samaritano lo vede, si ferma e la storia dice che provò compassione. “Muori, io mi preoccupo della mia purezza”. Provò compassione. Vi lascio la domanda: che cosa mi fa provare compassione? Oppure hai un cuore talmente arido che non provi compassione? Ognuno si dia una risposta. E poi che succede? Lo porta in un albergo e gli trova una stanza e dice al locandiere: “Guarda, io ripasserò tra tre giorni. Intanto prendi questo e se serve di più, al ritorno ti pago”. Questo “disgraziato” era uno che pagava. Allora abbiamo i ladroni che uccidono, il buon Samaritano che si prende cura e il levita e il sacerdote che se ne vanno per non diventare impuri. E Gesù dice: questo entra nel Regno dei Cieli, perché si è mosso a compassione. Pensate un po’ a questa storia. Dove sto io? Reco danno alla gente? Dove sto io? Evito le difficoltà reali o mi sporco le mani? A volte nella vita bisogna sporcarsi le mani per non sporcarsi il cuore.
Una giovane, in spagnolo:
Grazie, caro Francesco, per il tuo regalo, un vero segno per continuare a camminare insieme.
Papa:
Ora vi do la benedizione, ma voi promettetemi di chiedere la benedizione anche per me, dopo.
Pregate per me, e chi tra voi non lo fa perché non può o perché non si sente, che mi mandi energia positiva.
Apertura della GMG – Il discorso del Papa – 3 agosto 2023
“Benvenuti e grazie di essere qui, sono felice di vedervi! E anche di ascoltare il simpatico chiasso che fate e di farmi contagiare dalla vostra gioia. È bello essere insieme a Lisbona: siete stati chiamati qui da me, dal Patriarca, che ringrazio per le sue parole, dai vostri Vescovi, sacerdoti, catechisti e animatori. Ringraziamoli per questo e facciamo loro un bell’applauso!
Però è soprattutto Gesù che vi ha chiamati: ringraziamo Lui! Amici, non siete qui per caso. Il Signore vi ha chiamati, non solo in questi giorni, ma dall’inizio dei vostri giorni. Sì, Lui vi ha chiamati per nome. Chiamati per nome: provate a immaginare queste tre parole scritte a grandi lettere; e poi pensate che stanno scritte dentro di voi, nei vostri cuori, come a formare il titolo della vostra vita, il senso di quello che sei: tu sei chiamato per nome, tu sei chiamata per nome, io sono chiamato per nome. Al principio della trama della vita, prima dei talenti che abbiamo, delle ombre e delle ferite che portiamo dentro, siamo chiamati. Chiamati perché amati.
Agli occhi di Dio siamo figli preziosi, che Egli ogni giorno chiama per abbracciare e incoraggiare; per fare di ciascuno di noi un capolavoro unico e originale, la cui bellezza riusciamo solo a intravedere. In questa Giornata Mondiale della Gioventù, aiutiamoci a riconoscere questa realtà essenziale: siano questi giorni echi vibranti della chiamata d’amore di Dio, perché siamo preziosi ai suoi occhi, nonostante quello che a volte vedono i nostri occhi, annebbiati dalle negatività e abbagliati da tante distrazioni. Siano giorni in cui il tuo nome, attraverso fratelli e sorelle di tante lingue e nazioni che lo pronunciano con amicizia, risuoni come una notizia unica nella storia, perché unico è il palpito di Dio per te. Siano giorni in cui fissare nel cuore che siamo amati così come siamo. Questo è il punto di partenza della GMG, ma soprattutto della vita.
Chiamati per nome: non è un modo di dire, è Parola di Dio (cfr Is 43,1; 2 Tm 1,9). Amico, amica, se Dio ti chiama per nome significa che per Lui non sei un numero, ma un volto. Vorrei farti notare una cosa: tanti, oggi, sanno il tuo nome, ma non ti chiamano per nome. Il tuo nome infatti è noto, appare sui social, viene elaborato da algoritmi che gli associano gusti e preferenze. Tutto questo però non interpella la tua unicità, ma la tua utilità per le indagini di mercato. Quanti lupi si nascondono dietro sorrisi di falsa bontà, dicendo di conoscere chi sei ma non volendoti bene, insinuando di credere in te e promettendoti che diventerai qualcuno, per poi lasciarti solo quando non interessi più. Sono le illusioni del virtuale e dobbiamo stare attenti a non lasciarci ingannare, perché tante realtà che ci attirano e promettono felicità si mostrano poi per quello che sono: cose vane, superflue, surrogati che lasciano il vuoto dentro. Gesù no: Lui ha fiducia in te, per Lui tu conti.
E allora noi, sua Chiesa, siamo la comunità dei chiamati: non dei migliori – no, assolutamente no – ma dei convocati, di quanti accolgono, insieme agli altri, il dono di essere chiamati. Siamo la comunità dei fratelli e delle sorelle di Gesù, figli e figlie dello stesso Padre. Nelle lettere che mi avete indirizzato – sono belle, vi ringrazio! – avete detto: «Mi spaventa sapere che ci sono persone che non mi accettano e che non pensano ci sia un posto per me […] mi chiedo persino se esista un posto per me». E ancora: «Sento che nella mia parrocchia non c’è spazio per l’errore». Amici, vorrei essere chiaro con voi, che siete allergici alle falsità e alle parole vuote: nella Chiesa c’è spazio per tutti e, quando non c’è, per favore, facciamo in modo che ci sia, anche per chi sbaglia, per chi cade, per chi fa fatica. Perché la Chiesa è, e dev’essere sempre di più, quella casa dove risuona l’eco della chiamata per nome che Dio rivolge ad ognuno. Il Signore non punta il dito, ma allarga le braccia: ce lo mostra Gesù in croce. Lui non chiude la porta, ma invita a entrare; non tiene a distanza, ma accoglie. In questi giorni inoltriamo il suo messaggio d’amore, che libera il cuore e lascia una gioia che non svanisce. Come? Chiamando gli altri per nome. Chiedete il nome a chi incontrate e poi pronunciate i nomi degli altri con amore, aggiungendo senza paura: “Dio ti ama, Dio ti chiama”.
Ricordatevi a vicenda che siete preziosi. Non temete di dirvi anche: “Fratello, sorella, è bello che tu esista”. Credete a questo? Ci state? Anche voi stasera mi avete fatto delle domande, tante domande. Fare domande è giusto, anzi spesso è meglio che dare risposte, perché chi domanda resta “inquieto” e l’inquietudine è il miglior rimedio all’abitudine, a quella normalità piatta che anestetizza l’anima. E allora vorrei invitarvi a fare una seconda cosa in questi giorni: le domande che avete dentro, quelle importanti, che riguardano i vostri sogni, gli affetti, i desideri più grandi, la speranza e il senso della vita, non tenetele per voi, ma rivolgetele a Gesù. Chiamatelo per nome, come fa Lui con voi. Portategli i vostri interrogativi e confidategli i vostri segreti, la vita delle persone care, le gioie e le preoccupazioni e anche i problemi dei vostri Paesi e del mondo. Allora scoprirete una cosa nuova, sorprendente: che quando si domanda al Signore, quando ogni giorno gli si apre il cuore, quando si prega davvero, accade un ribaltamento interiore.
Succede che, nel dialogo della preghiera, Dio ti prende in contropiede: tu fai delle domande e Lui non ti dà delle semplici risposte, perché non è un motore di ricerca, ma l’Amico vero. Piuttosto, ti fa anche Lui delle richieste: tu gli chiedi quello di cui hai bisogno e cominci a sentire dentro altri interrogativi, i suoi, che toccano i nervi scoperti dell’anima e provocano al bene, che attirano a un amore più grande e portano il cuore a dilatarsi. Così Dio entra in dialogo con noi e ci fa maturare in ciò che conta davvero: dare la vita. Questo è successo nel Vangelo che abbiamo ascoltato: i discepoli, che non erano con Gesù da molto tempo, stavano lì in attesa di risposte. E Lui cosa fa? Li prende in contropiede e li manda in missione. Li invia, senza un’adeguata preparazione, senza sicurezze, senza «borsa, né sacca, né sandali»: si fida così tanto di loro che li manda «come agnelli in mezzo a lupi» (Lc 10,3.4). Gesù ripone la stessa fiducia in voi. I discepoli tornarono dall’avventura della missione felici. Amici, c’è una felicità che Gesù ha preparato per voi, per ciascuno di voi: non passa dall’accumulare cose, ma dal mettere in gioco la vita. Anche a te il Signore dice: “Vai, perché c’è un mondo che ha bisogno di quello che tu e solo tu puoi dargli”.
Tu potresti obiettare: “Ma cosa posso portare agli altri?” Una cosa sola, una notizia meravigliosa, la stessa che Lui ha consegnato ai suoi discepoli: “Dio è vicino” (cfr Lc 10,9). Questa è la perla preziosa dell’esistenza. Tutti hanno bisogno di sapere che Dio è vicino, che attende un piccolo cenno del cuore per riempire le nostre vite di meraviglia. Ma tu potresti controbattere ancora: “Non sono capace, ho paura, non mi fido”. Tutti abbiamo i nostri timori, non è quello il punto: siamo umani. Il punto è che cosa fare delle paure che abbiamo. Dio ci chiama proprio nelle nostre paure, nelle nostre chiusure e solitudini. Non chiama quelli che si sentono capaci, ma rende capaci quelli che chiama. Il Signore ha fatto meraviglie con Abramo, che era anziano e si sentiva arrivato, con Mosè che aveva paura di parlare perché balbettava, con Pietro che era impulsivo e sbagliava spesso, con Paolo che si era macchiato di grandi malefatte. Nessuno di loro era perfetto, ma tutti loro si sono legati al Signore. Sono stati “connessi” con Lui. Ecco il segreto, stare connessi col Signore.
Avete detto nelle vostre lettere: «Riconosco una crescente difficoltà ad avere uno sguardo allenato, attento alle cose del Cielo». È vero, non è facile, ma siamo qui per allenarci, per fare rete e connetterci alla chiamata di Dio. Abbiamo un grande aiuto, una Madre che, specialmente in questi giorni, ci tiene per mano e ci indica la via: Maria. È la creatura più grande della storia: non perché avesse una cultura superiore o abilità speciali, ma perché non si è mai staccata da Dio. Il suo cuore non si è lasciato distrarre o inquinare: è stato uno spazio aperto al Signore, sempre connesso con Lui. Lei ha avuto il coraggio di avventurarsi sulle vie della Parola di Dio e così ha portato speranza e gioia al mondo. Lei ci insegna a camminare nella vita, ma di questo parleremo sabato sera.
Per ora ricordiamo il punto di partenza: siamo tutti chiamati dal Signore, chiamati perché amati. E facciamo due cose: primo, chiamiamoci per nome e richiamiamo gli uni agli altri la bellezza di essere amati e preziosi! Secondo: facciamo domande a Gesù, che in questi giorni attende molte chiamate da parte nostra. Stiamo connessi a Lui. Connessi all’amore, la gioia crescerà. Buona GMG!”
5 agosto 2023
Veglia con i giovani
Discorso del S. Padre Francesco
Traduzione ufficiale
Cari fratelli e sorelle, buonasera!
Che bello vedervi! Grazie per aver viaggiato, camminato ed essere giunti qui! Anche la Vergine Maria, per raggiungere Elisabetta, viaggiò: «Si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39), dice il Vangelo di questa GMG. Viene da chiedersi: perché Maria si alza e va in fretta dalla cugina? Certo, ha appena saputo che è incinta, ma anche lei lo è: perché allora andare se l’angelo non gliel’ha domandato e neppure Elisabetta?
Maria compie un gesto non richiesto e non dovuto semplicemente perché ama e «chi ama vola, corre lietamente» (L’imitazione di Cristo, III,5). Maria non aspetta, prende l’iniziativa: va ad aiutare la cugina, e soprattutto si affretta a donarle la cosa più preziosa: la gioia. È missionaria di gioia e per questo ha fretta.
Vi sarà capitato di vivere qualcosa di così bello da non riuscire a tenerlo solo per voi: ecco, questa è la fretta buona di Maria, quella che spinge a condividere il bene con gli altri. Maria si alza e va. Cammina veloce sospinta dalle parole che le ha detto l’angelo: «Rallegrati […], il Signore è con te. […] Non temere» (Lc 1,28.30). Sono le parole che porta a Elisabetta. Com’è bello quando qualcuno ci dice: “Sono con te, non avere paura”. Maria fa così: per condividere la bellezza di Dio
che è vicino, si fa vicina lei stessa. Amici, se siamo qui è perché qualcuno ci ha portato la vicinanza di Dio, ha bussato alla nostra porta non per chiederci qualcosa, ma per il bisogno traboccante di condividere la gioia del Signore.
Rivolgiamo allora un pensiero a chi ha fatto sorgere il sole dell’amore di Dio sulle nostre vite. Tutti abbiamo persone che sono state raggi di luce: genitori e nonni, preti e suore, catechisti, animatori, insegnanti… Sono le radici della nostra gioia.
Radici di gioia. Chiudete un momento gli occhi e immaginate un albero, un bell’albero grande…
Come fa quell’albero a resistere alle tempeste e ai venti che lo scuotono, come può restare saldo? Grazie alle radici. Anche per noi è così: le radici ci danno la stabilità di cui abbiamo bisogno. Sono le sorgenti nascoste dell’anima. Amici, diventiamo degni delle nostre radici, di chi ci ha dato vita, fede e amore! Ma
pensiamo che anche noi possiamo essere radici di gioia per gli altri.
Mi domando però: come diventare radici di gioia? Ce lo mostra Maria: lei coltiva la gioia in cammino. Ci dice che per accrescere e custodire la gioia bisogna apprendere l’arte del cammino. Essa richiede un ritmo cadenzato, regolare, mentre oggi si vive di emozioni veloci, sensazioni momentanee, istinti che durano istanti.
No, la gioia non nasce così, Maria ci insegna che occorre la costanza del cammino,
quella di cui voi avete dato prova per giungere qua. Passo dopo passo si va lontano. I campioni dello sport, come pure i musicisti e gli scienziati, mostrano che i grandi traguardi non si raggiungono in un attimo: quanto allenamento c’è dietro un gol, quanto lavoro dietro una canzone che emoziona, quanto studio dietro
una scoperta importante!
Se ciò è vero per lo sport, la musica e la ricerca, vale a maggior ragione per quel che più conta, per l’amore e per la fede. Qui però il rischio è di lasciare tutto all’improvvisazione: prego se mi va, vado a Messa quando ho voglia, faccio del bene se mi piace… Invece il segreto è nel cammino, nello stare in un percorso, giorno dopo giorno, passo dopo passo, sulle orme già segnate da altri, insieme. Questo è importantissimo: insieme. Il “fai da te” nelle grandi cose non funziona e per questo vi dico: per favore, non isolatevi, cercate gli altri, fate esperienza di Dio insieme, seguite cammini di gruppo senza stancarvi. Tu potresti dire: “Ma attorno a me stanno tutti per conto loro con il cellulare, guardano serie tv, stanno attaccati
ai social e ai videogiochi…”. E tu vai controcorrente, senza paura: prendi la vita tra le mani, mettiti in gioco; spegni la tv e apri il Vangelo; lascia il cellulare e incontra le persone!
Mi sembra di sentire già la vostra obiezione: “È impegnativo, è difficile andare controcorrente!”. Guardiamo a Maria. I Vangeli ci dicono che lei cammina molto, seconda solo a Gesù in questo. Ma sapete qual è la costante dei suoi tragitti? Che sono praticamente tutti in salita: da Nazaret alla regione montuosa di Elisabetta, poi su, verso Betlemme e Gerusalemme, quindi sul Calvario e infine al piano superiore del Cenacolo. Va in salita, perché solo salendo si arriva in alto. Certo, per salire si fa fatica e occorre un passo regolare. Ma ne vale la pena. Così è quando si va controcorrente: la fatica e la costanza nel bene premiano.
Vi sarà capitato di arrivare in cima a una montagna dopo un lungo cammino, di faticare molto, ma di avere poi davanti agli occhi una vista favolosa, che ripaga tutti gli sforzi, mentre dentro ci si sente liberi e in pace.
Lo stesso accade quando si cammina dietro a Gesù: non è tutto facile e in discesa, perché Lui è il Dio dell’avventura, dell’esodo, non delle passeggiate tranquille. Non è uno che ti dà una pacca sulla spalla e se ne va, ma l’Amico vero che ti accompagna lungo la strada; e camminando ti aiuta a vincere le paure e ti porta in alto, alle vette per le quali sei fatto. Lui ti conosce, sa quanto vali, sa che ce la puoi fare. “Ma io – potresti dire – non sono all’altezza: mi percepisco fragile, debole, cado spesso!”. Quando ti senti così, per favore, “cambia inquadratura”: non guardarti con i tuoi occhi, ma pensa allo sguardo di Dio. Quando sbagli e cedi, Lui cosa fa? Sta lì, accanto a te e ti sorride, pronto a prenderti per mano con tenerezza. Ce lo ha raccontato Don Antonio ma, se vuoi conferme, apri il Vangelo e vedi che cosa ha fatto con Pietro, con Maria Maddalena, con Zaccheo e con tanti altri: meraviglie con le loro fragilità. Dio non si lega al dito i nostri errori, il suo amore non dipende dai nostri comportamenti. Dio – ci ha detto Gesù – è Padre e, quando nel cammino cadiamo, vede un figlio o una figlia da rialzare, mai un malfattore da punire. È fedele e conta su di noi. Fidiamoci di Lui!
Amici, vorrei dirvi ancora una cosa importante sul cammino. Qui abbiamo vissuto giornate belle e forti insieme, ma quando si torna a casa, come si fa a camminare, da dove si parte ogni giorno? Lasciamoci aiutare ancora da Maria, che si alza e va. Sono questi i due passi per camminare quotidianamente: alzarsi e andare.
Primo: alzarsi. Alzarsi da terra, perché siamo fatti per il Cielo; per stare in piedi di fronte alla vita, non seduti sul divano. Alzarsi dalle tristezze per levare lo sguardo in alto. Alzarsi per rispondere alla bellezza insopprimibile che siamo. Alzarsi, in poche parole, per riceversi in dono. Riceversi in dono: riconoscere, cioè, per prima cosa che siamo doni, figli amati e preziosi. Non è autostima, ma realtà: è il punto di partenza quotidiano. È il primo passo da fare al mattino quando ti svegli: scendi dal letto e riceviti in dono. Come? Ringraziando, dicendo grazie a Dio. Aspetta a tuffarti nelle cose da fare e prenditi un momento per dirgli: “Signore, grazie per la mia vita. Signore, fammi amare la vita. Signore, tu sei la mia vita”. Poi preghi il Padre Nostro, dove la prima parola è la chiave della gioia: dici “Padre” e ti riconosci figlio amato, figlia amata. Ti ricordi che per Dio non sei “un profilo”, ma un figlio, che hai un Padre nei cieli e che dunque sei figlio del cielo. Ecco la nostra forza, che ci rialza dalle cadute e ci rimette in piedi nelle prove, come Marta ci ha testimoniato. Alziamo lo sguardo, teniamo in alto i cuori!
Alzarsi e poi, secondo passo, andare. Se la vita è un dono, non posso che farne un dono. Dunque, se il primo movimento era riceversi in dono, il secondo è farsi dono. Amici, anche se oggi tutto pare incerto, la precarietà che si respira non può essere una scusa per stare fermi: non siamo al mondo per fare i nostri
comodi, ma per scomodarci andando incontro a chi ha bisogno di noi. È così che ritroviamo noi stessi.
Sapete perché spesso ci smarriamo nel cammino? Perché restiamo a orbitare attorno a noi stessi. Invece, chi esce dalla propria orbita si ritrova, chi si spende per gli altri guadagna sé stesso, perché la vita si possiede solo donandola. Come Maria, che riceve un dono da Dio e subito si fa dono per Elisabetta. Ma se ruotiamo solo attorno al nostro “io”, ai nostri bisogni, a quello che ci manca, ci troveremo sempre al punto di partenza, a piangerci addosso col muso lungo, magari con l’idea che tutti ce l’abbiano con noi.
Quante volte diventiamo preda di tristezze inconsistenti che ci bruciano le energie migliori! No, non lasciamoci prendere in ostaggio dalla solitudine e paralizzare dalla malinconia, ma andiamo verso gli altri. Usciamo dai “perché” chiedendoci “per chi”: per chi posso fare qualcosa? Per chi offrire il mio tempo, chi servire?
Pensate a questo: il Padre nostro ha creato tutto per noi, ma noi per chi creiamo qualcosa di bello? Viviamo immersi in prodotti fatti dall’uomo, che ci fanno perdere lo stupore per la bellezza che ci circonda, ma il creato ci invita a essere creatori di bellezza, a fare qualcosa che prima non c’era. Sì, la vita chiede di
essere donata, non gestita; di uscire dalla dipendenza dal virtuale, dal mondo ipnotico dei social che anestetizza l’anima.
Ragazzi, non siate professionisti del digitare compulsivo, ma creatori di novità! Una preghiera fatta col cuore, una pagina che scrivi, un sogno che realizzi, un gesto d’amore per qualcuno che non può ricambiare: questo è creare, imitare lo stile con cui Dio ha creato il mondo. È lo stile della gratuità, che fa uscire dalla logica nichilista del “faccio per avere” e “lavoro per guadagnare”. Siate creativi con
gratuità, date vita a una sinfonia di gratuità in un mondo che vive di profitti! E allora sarete rivoluzionari.
Andate e donate, senza paura!
Giovane che sei qui, stanco perché hai camminato tanto ma felice perché ti sei alleggerito l’anima, con una sensazione di libertà che le cose non ti danno, alzati: apri il cuore a Dio, ringrazialo, abbraccia la bellezza che sei; innamorati della tua vita e scopri ogni giorno di essere amato. E poi vai: esci, cammina con gli altri, cerca chi è solo; colora il mondo con i tuoi passi e dipingi di Vangelo le strade della vita. Alzati e vai. Ascolta Gesù che ti rivolge quest’invito. Lui, a tante persone che aiutava e guariva, diceva proprio: “Alzati e vai” (cfr Lc 17,19). Abbiamo bisogno di sentircelo ripetere. È quello che accade ora, nell’Adorazione: noi guardiamo Gesù e Lui guarda noi. Nel silenzio lasciamo risuonare la sua voce calda e gentile, che parla al cuore, consola, incoraggia, risana e invia. Non è un incontro intimistico, è la forza per rialzarci e andare. L’autore del Signore degli anelli, uno dei cammini più avventurosi di sempre, scrisse a suo figlio: «Ti offro l’unica cosa grande da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento. Lì troverai fascino, gloria, onore, fedeltà e la vera via di tutti i tuoi amori sulla terra» (J.R.R. TOLKIEN, Lettera 43, marzo 1941). Davanti all’Eucarestia troviamo la via, perché Gesù è la via (cfr Gv 14,6). Rinnoviamo stasera il nostro incontro con Gesù. Diciamogli: “Signore Gesù, ti ringrazio e ti seguo. Ti amo e voglio camminare con Te.”
6 agosto 2023
S. MESSA – OMELIA
Traduzione ufficiale
«Signore, è bello per noi essere qui!» (Mt 17,4). Queste parole, che disse l’apostolo Pietro a Gesù sul monte della Trasfigurazione, vogliamo farle anche nostre dopo questi giorni intensi. È bello quanto stiamo sperimentando con Gesù, ciò che abbiamo vissuto insieme, ed è bello come abbiamo pregato, con tanta gioia del cuore. Allora possiamo chiederci: cosa portiamo con noi ritornando alla vita quotidiana?
Vorrei rispondere a questo interrogativo con tre verbi, seguendo il Vangelo che abbiamo ascoltato. Che cosa portiamo? Brillare, ascoltare, non temere. Che cosa portiamo con noi? Rispondo con queste tre parole: brillare, ascoltare e non temere.
La prima: brillare. Gesù si trasfigura. Il Vangelo dice: «Il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2). Egli aveva da poco annunciato la sua passione e la morte di croce, frantumando così l’immagine di un Messia potente, mondano, e deludendo le attese dei discepoli. Ora, per aiutarli ad accogliere il progetto d’amore di Dio su ciascuno di noi, Gesù prende tre di loro, Pietro, Giacomo e Giovanni, li conduce sul monte e si trasfigura. E questo “bagno di luce” li prepara alla notte della passione.
Amici, cari giovani, anche oggi noi abbiamo bisogno di un po’ di luce, di un lampo di luce che sia speranza per affrontare tante oscurità che ci assalgono nella vita, tante sconfitte quotidiane, per affrontarle con la luce della risurrezione di Gesù. Perché Lui è la luce che non tramonta, è la luce che brilla anche nella notte. «Il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi», dice il sacerdote Esdra (Esd 9,8). Il nostro Dio illumina. Illumina il nostro sguardo, illumina il nostro cuore, illumina la nostra mente, illumina il nostro desiderio di fare qualcosa nella vita. Sempre con la luce del Signore.
Ma vorrei dirvi che non diventiamo luminosi quando ci mettiamo sotto i riflettori, no, questo abbaglia. Non diventiamo luminosi. Non diventiamo luminosi quando esibiamo un’immagine perfetta, ben ordinata, ben rifinita, no; e neanche se ci sentiamo forti e vincenti, forti e vincenti, ma non luminosi. Noi diventiamo luminosi, brilliamo quando, accogliendo Gesù, impariamo ad amare come Lui. Amare come Gesù: questo ci rende luminosi, questo ci porta a fare opere di amore. Non t’ingannare, amica, amico, diventerai luce il giorno in cui farai opere di amore. Ma quando, invece di fare opere di amore verso gli altri, guardi a te stesso, come un egoista, lì la luce si spegne.
Il secondo verbo è ascoltare. Sul monte, una nube luminosa copre i discepoli. E questa nube, dalla quale parla il Padre, che cosa dice? «Ascoltatelo», «questi è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo» (Mt 17,5). È tutto qui: tutto quello che c’è da fare nella vita sta in questa parola: ascoltatelo. Ascoltare Gesù. Tutto il segreto sta qui. Ascolta che cosa ti dice Gesù. “Io non so cosa mi dice”. Prendi il Vangelo e leggi quello che dice Gesù, quello che dice al tuo cuore. Perché Lui ha parole di vita eterna per noi, Lui rivela che Dio è Padre, è amore. Lui ci indica il cammino dell’amore. Ascolta Gesù. Perché noi, anche se con buona volontà, ci mettiamo su strade che sembrano di amore, ma in definitiva sono egoismi mascherati da amore. State attenti agli egoismi mascherati da amore! Ascoltalo, perché Lui ti dirà qual è il cammino dell’amore. Ascoltalo.
Brillare è la prima parola, siate luminosi; ascoltare, per non sbagliare strada; e infine la terza parola: non avere paura. Non abbiate paura. Una parola che nella Bibbia si ripete tanto, nei Vangeli: “non abbiate paura”. Queste furono le ultime parole che nel momento della Trasfigurazione Gesù disse ai discepoli: «Non temete» (Mt 17,7).
A voi giovani che avete vissuto questa gioia – stavo per dire questa gloria, e in effetti una specie di gloria lo è, questo nostro incontro –; a voi che coltivate sogni grandi ma spesso offuscati dal timore di non vederli realizzati; a voi che a volte pensate di non farcela – un po’ di pessimismo ci assale a volte –; a voi, giovani, tentati in questo tempo di scoraggiarvi, di giudicarvi forse inadeguati o di nascondere il dolore mascherandolo con un sorriso; a voi, giovani, che volete cambiare il mondo – ed è un bene che vogliate cambiare il mondo – e che volete lottare per la giustizia e la pace; a voi, giovani, che ci mettete impegno e fantasia nella vita, ma vi sembra che non bastino; a voi, giovani, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia; a voi, giovani, che siete il presente e il futuro; sì, proprio a voi, giovani, Gesù oggi dice: “Non temete!”, “Non abbiate paura!”.
In un piccolo silenzio, ognuno ripeta a sé stesso, nel proprio cuore, queste parole: “Non abbiate paura”.
Cari giovani, vorrei guardare negli occhi ciascuno di voi e dirvi: non temete, non abbiate paura. Di più, vi dico una cosa molto bella. Non sono più io, è Gesù stesso che vi guarda ora, vi guarda, Lui che vi conosce, conosce il cuore di ognuno di voi, conosce la vita di ognuno di voi, conosce le gioie, conosce le tristezze, i successi e i fallimenti, conosce il vostro cuore. E oggi Lui dice a voi, qui, a Lisbona, in questa Giornata Mondiale della Gioventù: “Non temete, non temete, coraggio, non abbiate paura!”.